SPORTWEEK, 24.04.2004

Intervista esclusiva con Alain Prost: « Ayrton, mi manchi »



Compagni di squadra. E avversari. Divisi da una rivalità che spesso ha toccato i toni dell’inimicizia. Alain Prost e Ayrton Senna, entrambi campioni eccelsi, ma agli antipodi sotto il profilo umano e sportivo. O, forse, nemmeno troppo lontani, come svela il pilota francese che, sempre restio, nonostante le sollecitazioni, a parlare del loro confronto, spesso grandioso, talvolta drammatico, oggi, a 49 anni, e a 10 anni di distanza dalla scomparsa di Senna, ha accettato di farsi intervistare per parlare di quel pilota e di quelle stagioni che hanno segnato la storia della Formula 1.

Signor Prost, ricorda il suo primo incontro con Senna?
Era il 1984. La Mercedes ci aveva chiesto di disputare una gara dimostrativa al Nurburgring per il lancio di un nuovo modello. Un’occasione divertente: c’erano tutti i piloti della Formula 1 dell’epoca, oltre a qualche grande ex, come Jack Brabham e Stirling Moss. Ayrton, che sarebbe atterrato mezz’ora dopo di me, mi aveva chiesto un passaggio in auto. Lo aspettai all’aeroporto, facemmo il viaggio assieme. Una situazione buffa: lui non conosceva nessuno e mi rimase attaccato per tutto il weekend sapendo che io, invece, conoscevo tutti.

Che effetto le fece quella volta Senna?
Non si può decifrare una personalità come quella di Ayrton in una sola giornata. Come tutti i piloti appena arrivati in Formula 1, era un po’ timido, a tratti freddo, poco espansivo. Era stupito dal fatto che io guidassi a 220-230 all’ora in autostrada, cosa che mi pareva naturale allora in Germania!

Com’era Ayrton nei primi anni di Formula1? C’era chi lo riteneva pericoloso.
Alla Lotus, dopo l’esordio con la Toleman, si era affermato come top driver. Il motore Renault di allora era notevole, il telaio Lotus era buono, ma non eccezionale, e il binomio Ayrton-Renault esplosivo. Senna era molto, molto veloce nelle qualifiche e aveva conquistato tante pole position. A volte il suo comportamento poteva apparire pericoloso: si muoveva come se in pista ci fosse solo lui e questo era già un indizio della sua voglia di dominare. Poi è cambiato, è maturato, ha cominciato a reagire diversamente.

Era questa la sua opinione quando Senna arrivò alla McLaren nel 1988?
No, avevo già cambiato idea: tutti sanno che fui io a insistere perché Ayrton entrasse nel nostro team. Lui era il miglior pilota, e io pensavo che in una squadra come la McLaren-Honda avessimo bisogno del migliore.

Non ebbe l’impressione di vedere il lupo entrare nell’ovile?
E’ difficile per un osservatore esterno capire il mio stato d’animo di quel momento. Avevo cambiato atteggiamento grazie a lui, ma anche a causa sua e non lo rifarei più. Ayrton volle subito essere il numero uno, com’è oggi Schumacher. La McLaren era la mia famiglia, e si era persino parlato di una mia partecipazione nella squadra. Avevo insistito affinché fosse ingaggiato solo perché volevo ricreare il dream team del 1984 e 1985 con me e Niki Lauda. Non dico sul piano sportivo, a quello ero preparato: avevo sottovalutato l’aspetto umano.

Per lei furono due anni terribili. A proposito delle vostre liti, si disse che erano scontri violenti e radicali.
A distanza di tanto tempo, non posso avere rimpianti: restano solo i bei ricordi, anche se ci furono momenti parecchio difficili. Soffrii molto sul finire della stagione 1989. La situazione era insopportabile: essere in una squadra alla quale avevo dato tutto e per la quale sentivo che, piano piano… Mi ricordo di Monza, per esempio: io avevo i miei tre o quattro tecnici ad aiutarmi, mentre attorno alla macchina di Ayrton ruotavano una trentina di persone. Difficile da sopportare. Mi sentii tradito da alcuni in particolare, specialmente quelli della Honda, mai quelli della McLaren.

Quindici anni dopo, come interpreta il vostro confronto a oltranza?
Ayrton era in una posizione di forza, soprattutto verso la Honda. Avevo capito che, a lungo andare, la situazione sarebbe stata insostenibile per me. Verso metà ’89, quando dissi a Ron Dennis patron della McLaren, che avrei lasciato la squadra, non avevo preso il minimo contatto con altri team. Però mi dicevo: "Smetto, non voglio più fare una stagione come questa". Il peggio era che mi sentivo completamente sfruttato. Mi facevano fare tutte le prove, Ron mi chiamava e mi diceva: "Vai in Inghilterra, Ayrton è in Brasile". Punto e basta. Nel 1988 avrei potuto ancora sopportarlo, ma dopo…

Nel 1988 avevate già ingaggiato duelli terribili.
E’ vero, ma ci si doveva aspettare questo da Ayrton. Dal momento in cui abbassava la visiera, entrava completamente nel suo ruolo di pilota. Avevamo forti scontri specie nei momenti di grande tensione, come a Estoril, dopo la corsa, ma poi tutto passava. Nel 1989, però, la situazione si complicò sul piano umano e politico: mi sentivo soffocare, da qui la mia decisione di andarmene. Avrei preferito lasciare la Formula 1 piuttosto che continuare in quella situazione. Io e Ayrton eravamo due piloti eccezionali, ma con qualità e stili opposti. Eravamo diversi, ma volevamo guidare la stessa macchina e perseguire gli stessi risultati. Avevamo un approccio mentale e un modo di lavorare divergente: Ayrton era forte nella prestazione sul giro, mentre io mi concentravo sulla preparazione della macchina per la gara. Due metodi di lavoro che avrebbero potuto unirci, o separarci irrimediabilmente. Non parliamo poi dei media… Passammo di colpo dalle pagine dei giornali specializzati a quelle delle più diffuse riviste familiari. D’improvviso il numero di chi si interessava alla Formula 1 si moltiplicò per dieci.

Certo che in quel periodo la Formula 1 era appassionante…
La rendemmo noi appassionante, involontariamente, facendo il nostro lavoro. Non sarebbe mai successo con un Lauda o un Rosberg. Doveva esserci Senna, uno completamente diverso, eccezionale non solo in pista. C’era una miscela esplosiva. Nel 1988, in realtà, non era successo gran che, ma bastò un nonnulla perché la situazione acquistasse dimensioni incredibili. Sulla pista non avrei mai creduto che il nostro antagonismo sarebbe potuto arrivare… arrivare… fino alla morte. No! E qui mi permetto di parlare di me più che di Ayrton. Mi si può rimproverare il fatto che è facile dirlo a vent’anni di distanza, ma è cosi. Nel 1982 gli incidenti di Didier Pironi e Gilles Villeneuve mi avevano profondamente scosso. Avevo quasi deciso di smettere. Quando pioveva o c’erano condizioni pericolose, mi ripetevo: "Alain, fa quello che ritieni giusto. Infischiatene di chi ti guarda o ti giudica perché tu potrai raccontarlo". Mi ero imposto di evitare rischi superflui. Questo sport è pieno di pericoli e io non sono mai stato pronto ad affrontare Ayrton fino in fondo.

Eppure, continuavate ad avere degli incidenti, come a Suzuka nel 1989.
Tutte le manovre di sorpasso di Ayrton si traducevano in un: "o la va o la spacca". Spesso è "andata" solo perché io non volevo che si "spaccasse". Prima della gara di Suzuka nel 1989, dissi a Dennis e alla stampa: "Qui ci si gioca il campionato, ma non sarò io ad aprire la porta!". Quando Ayrton fece il suo sorpasso, io la porta non la chiusi, ma nemmeno la spalancai. Lui arrivò velocissimo: neanche l’avevo scorto, perché sbucò da molto lontano. Ma io controllavo la corsa. Lui sapeva che la mia macchina era di un’inezia migliore della sua e quello era l’unico punto e l’unico momento per tentare di passarmi. Non aveva remore. La sua motivazione principale era battermi. Ero il bersaglio. Ho moltiplicato per dieci la determinazione.

Ci fu un altro scontro a Suzuka, nel 1990.
Se c’è una cosa che non ho mai mandato giù, è proprio quell’episodio. Ayrton era furioso perché non avevano accettato di spostare la posizione della pole sulla griglia. E lui, ovviamente, aveva la pole position. Tutto accadde solo perché lui voleva vendicarsi della decisione di Jean-Marie Balestra di squalificarlo l’anno prima. Era tutto premeditato: l’aveva già svelato a molti. Non pensavo che potesse arrivare a tanto. Persi la corsa e ogni possibilità di vincere il titolo con la Ferrari, che sarebbe stata una cosa formidabile. Nel 1991, Ayrton disse che non che quel gesto si ritorcesse contro di me. Una dichiarazione che mi fece tornare in mente gli avvenimenti degli anni precedenti, così pensai: "Se questo tipo è capace di tanto, vuol dire che non ha paura di morire".

Poi le acque si calmarono. Nel 1992 lei non gareggiò, nel 1993 invece, era alla Williams e suggellaste la pace ad Adelaide per l’ultima gara.
Ayrton si faceva beffe di quelli della Formula 1 e dei giornalisti. Non era sempre così, ma gli piaceva farlo. La riprova la si ebbe all’annuncio del mio ritiro dopo la conquista del quarto titolo. Mi aveva chiamato per parlarne, prima del Giappone. Aveva capito improvvisamente di avere via libera. A Suzuka vinse, io arrivai secondo. Ci ritrovammo in una saletta prima della conferenza stampa e io gli dissi: "Sai che questo è il momento di ammettere pubblicamente qualcosa?". Mi guardò e annuì. Ma alla conferenza stampa fece di tutto per rendermi ridicolo. Un orrore! Mi dissi dal più profondo: "Allora Ayrton è davvero una testa di cazzo!". Ero furibondo! Credo che fra sé e sé pensasse: "Ci resta ancora una corsa, dobbiamo batterci ancora un’ ultima volta". Era il Gran Premio d’Australia non ci parlavamo dal fine settimana. Ai box, ci scambiammo qualche battuta. Lui vinse, io fui secondo e poco prima di salire sul podio mi chiese di raggiungerlo. Una cosa improvvisata e per questo più spontanea e simpatica. Da quel momento la situazione si ribaltò: per lui era tutto finito.

Sembra che il suo ritiro l’avesse segnato.
Si, e in modo inaspettato. Nell’inverno non smise di chiamarmi. Avevo ritrovato quegli aspetti positivi della sua persona che talvolta, in passato, erano affiorati in modo fugace. Perciò dico che in fondo non eravamo così distanti. E’ stata colpa di un gioco del destino, di una stranezza. Un’alchimia sbagliata che aveva fatto prendere al nostro rapporto quella piega strana.

E improvvisamente vi riavvicinaste.
Una storia che sembra la trama di un film, un racconto magico che parla di persone molto più amiche di quanto loro stesse pensassero. Bastò un nonnulla per ritrovarsi. Penso di non sbagliarmi su una cosa: quando aveva esordito in Formula 1, mi aveva confessato di aver seguito da vicino tutta la mai carriera. Per lui la Formula 1 era Alain Prost. Nient’altro che Alain Prost. Doveva batterlo, non solo: doveva annientarlo!

Come ha interpretato la sua frase pronunciata in tv "Alain mi manchi"?
Ayrton disse queste parole commentando dal suo abitacolo della sua Williams un giro del circuito di Imola. Un servizio registrato alla vigilia di quel Gran Premio fatale. Fu una cosa commovente. Fino ad allora, Ayrton aveva fatto qualche confidenza telefonica, per esempio svelandomi di non essere motivato nei confronti di Schumacher o Mansell, o di ritenere che la Benetton non rispettasse le regole, o che non riusciva a trovare un spinta forte… Più qualche altra informazione personale. Ma quella era la prima volta che dichiarava pubblicamente qualcosa di così gentile nei miei confronti. Non era uno dei suoi soliti scherzi, veniva più dal profondo. La stessa settimana l’avevo sentito al telefono: non stava bene. Sentivo che era inquieto e non solo per il passaggio dalla McLaren alla Williams. C’era un insieme di fattori. Era un po’ afflitto: la macchina non andava bene come credeva aveva un problema di posizione all’interno dell’abitacolo. E poi io che non c’ero più, la storia con la Benetton, qualche preoccupazione personale… Mi chiedeva consigli sulla Williams. Era carino da parte sua. Sembra sciocco, ma Ayrton era il tipo che avrei sempre continuato ad aiutare. Sinceramente.

Lei era a Imola il 1° maggio 1994.
Facevo al cronaca in diretta per TF1… Un momento che non si può dimenticare, con tutte quelle imprecazioni che si sentivano a destra e a sinistra… Quel fine settimana fu davvero incredibile. Gli incidenti di Barricehllo e Ratzenberger, la registrazione con quella frase "Alain,mi manchi". La vigilia della corsa, Ayrton mi aveva chiamato per parlarmi di sicurezza: era molto preoccupato in proposito. Poco prima della gara, ero a pranzo con esponenti della Renault e qualche giornalista. Lo vidi venire verso di me, con il casco sotto il braccio. Attraversò il motorhome per venire a parlare con me. Non l’avevo mai visto fare una cosa simile. Venne a chiedermi di raggiungerlo nei box. E per farlo dovette superare quella barriera di assistenti che, sinceramente , infastidisce non poco in un momento di massima tensione e concentrazione, mentre ci si sta avviando a prendere posizione per la partenza della gara. Lo raggiunsi nel box: stava facendo un po’ di stretching. Quando rimanemmo soli, mi espose alcuni dubbi. In quel momento vidi un Ayrton totalmente diverso, non più dominatore, ma, al contrario, preoccupato e inquieto. Mi parlò dell’impossibilità di battere la Benetton, della gara che stava per partire, e anche un po’ dell’incidente della vigilia. Fu lui ad affrontare l’argomento.

Poi l’incidente.
Vidi la testa di Senna inclinata su un lato: significava che aveva perso conoscenza, che l’incidente era molto grave. Ma c’erano due interpretazioni, a seconda del punto di osservazione. Chi diceva che l’impatto era stato molto violento, chi che la macchina aveva continuato la corsa per inerzia assorbendo il colpo. Il cozzo con il muro fu comunque spaventoso. Subito capimmo la gravità del fatto, ma le notizie erano contraddittorie. Alla tv volevano far credere che Ayrton si fosse solo rotto una spalla, ma io obiettai: "Aspettate, non diciamo niente né in un senso,né nell’altro: è ridicolo." L’immagine più angosciante che mi è rimasta è di qualche ora più tardi, all’aeroporto. Ero con quelli della Renault quando ci comunicarono che Ayrton era morto. Ci sedemmo in una saletta, con Louis Schweitzer, presidente della Renault, che fece il comunicato. Mi pose qualche domanda, poi salimmo a bordo. Una cosa grottesca, irreale. Sull’aereo fu troppo! Vedevo tutti mangiare come se niente fosse. Io ero scioccato, gli altri pensavano ai propri affari, alle loro trasmissioni televisive Ho vissuto tutta la settimana seguente praticamente anestetizzato.

Una parte della sua vita stava andando in pezzi.
Assolutamente. E’ stato come un secondo stop alla mia carriera. Da quel momento, non ho più pensato alla Formula 1 come prima. E’ stata un’emozione troppo forte, che mi ritorna in mente in continuazione.

Come guarda oggi a quel passato?
A dieci anni di distanza, la notorietà di cui godeva, e di cui anch’io sono tuttora circondato, è sempre percettibile. Ayrton e io abbiamo scritto gli anni più belli della Formula 1: in modo naturale, spontaneo. La gente si rende conto di questo, oggi forse ancora più di un tempo. Con Ayrton abbiamo costruito qualcosa di grande, senza volerlo. E questo fa parte della mia storia.

Ayrton le manca?
E’ sciocco, ma chiedo spesso cosa ne sarebbe stato di lui. Penso sarebbe tornato in Brasile, semplicemente.



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